Associazione per Mario Negri – per la Scultura

Mario Negri

Artista | Porta Venezia – Loreto | Dagli anni Sessanta verso la fine del millennio

Biografia

Mario Negri è nato a Tirano, in Valtellina, il 25 giugno 1916. Da Genova dove frequenta le prime scuole si trasferisce a Milano; prende la maturità classica e, da privatista, quella artistica all’Accademia di Brera. Tra il ’35 e il ’40 conosce a Milano artisti e intellettuali legati in particolare al gruppo di Corrente. Dopo gli studi di architettura e un lungo intervallo dovuto alla guerra e alla prigionia (chiamato alle armi nel ’40 vi resterà fino al ’45, prigioniero negli ultimi due anni nei campi di lavoro polacchi e tedeschi per essersi rifiutato di combattere nell’esercito del Reich), tiene la prima personale nel ’57, presso la Galleria del Milione. Sono questi gli anni dei legami umani e culturali più intensi e formativi: Alberto Giacometti, Franco Russoli, Luigi Carluccio, Lamberto Vitali, Cesare Gnudi, Marco Valsecchi, Dante Isella, Vittorio Sereni, Rudi Wach e i fotografi Arno Hammacher e Paolo Monti. Dalla fine degli anni Cinquanta la sua partecipazione a mostre in Italia e all’estero è sempre più regolare e costante. Si spegne improvvisamente a Milano il 5 aprile 1987, alla vigilia di un’antologica a Mantova presso Palazzo Te.

Un prima, un dopo. Nel 1957 esordisti con la tua personale, alla Galleria del Milione. Non eri più un artigiano, uno studioso, un critico. Eri un artista. Le tue sculture erano la tua voce, parlavano per te. L’esperienza del tuo travaglio, l’etica della tua visione, la rettitudine della tua vita. Non parole, opere. La mondanità non ti apparteneva. Non eri un animale di compagnia, non eri un’artista da bar Giamaica. Forse è anche per questo che ti hanno amato di più all’estero, che – dopo la sorprendente mostra del Milione dove sembrava fosse nato dal nulla un artista – le tue opere oggi si trovano nelle gallerie, nei musei, nelle collezioni private canadesi, israeliane, australiane, svizzere, giapponesi, tedesche. Hai avuto personali a New York, hai lavorato ad un monumento per una piazza ad Eindhoven. E a Milano te ne stavi chiuso nel tuo studio.
Prima, finita la guerra, in via Pellegrino Rossi, poi in via San Calocero e in via Pisacane. Fino ad arrivare in via Stoppani al 7. Avevi casa esattamente di fronte, dovevi solo attraversare la strada. Lì vicino abitava, in piazza Lavater, Gillo Dorfles, ma non lo andavi a trovare, preferivi passeggiare per negozi d’antiquariato, parlare con Giovanni Mazzaglia che aveva la bottega in via Stoppani, con Cesati, antiquario del ferro, in via Baldissera, con Carlo Ferrero in viale Regina Giovanna, o con Gustavo Mazzola, mercante d’arte, in via Nino Bixio. Oppure per rilassarti andavi al Cinema “Delle Stelle”, in via Frisi, da solo, ovviamente. Amavi Bresson e Dreyer. Il tuo quartiere era il tuo mondo, ti bastava.
Non era alterigia la tua, non era superbia. Eri un marito affettuoso, un padre tenero, le tue amicizie erano intense, profonde, gioiose. Venivano a trovarti in studio il creatore di gioielli Karl-Heinz Reister, oppure i fotografi Paolo Monti e Arno Hammacher, con Enrico Della Torre passavi lunghe estati a Teglio o ad Aprica, con Giovanni Testori facevi infinite telefonate all’ora di cena. Ma sapevi che unicamente nella solitudine si può esprimere un artista. Evitati trucchi, teorie, scorciatoie. L’artista doveva diventare anonimo, solo la sua arte doveva esprimersi. Te ne stavi nel tuo studio in via Stoppani – l’esternazione fisica del tuo mondo interiore, la sua concretizzazione – ascetico, simile a certe tue colonne di bronzo. Tu eri come la figurina che svettava in cima, un anacoreta dell’arte, un monaco stilita. Dall’alto della tua visione spirituale vedevi il mondo con umiltà e dedizione. Non cercavi approvazione, non volevi celebrazioni. Rifiutasti la realizzazione di un monumento ai caduti ad Aprica perché eri in disaccordo con i committenti e la loro concezione di “monumento”. Umili erano le tue sculture, come piccole pievi di campagna, eppure monumentali, non per dimensioni, ma per scala, per impeto. Rifiutasti di lavorare per la XI Quadriennale Nazionale di Roma, perché occupato a scrivere su Modigliani scultore. Di lui ricordavi le parole di Anna Achmatova. “Era circondato da un compatto anello di solitudine”. Quello dell’artista autentico. La tua solitudine, Mario.
Ti invitavano a concorrere in Germania, in Belgio ti nominavano accademico, in Austria inauguravano tue personali viaggianti, proprio negli anni della Milano da bere, del craxismo rampante così lontano dalle tue idee socialiste (“falce e scalpello” dicevano di te le compagne di scuola delle tue figlie) fatte di solidarietà, misura, riservatezza. Consigliavi ai giovani scultori di tendere all’assoluto, all’essenziale, al ‘Vero’. “Ogni scultore se è scultore è un primitivo”, dicevi a Franco Russoli, a Vittorio Sereni, a Vanni Sheiwiller.
C’è sempre stato un prima e un dopo per te, Mario. Tranne l’ultima volta, quando la proprietaria del tuo studio in affitto ti intimò di acquistarlo: “o lo compra o se ne va”. Non possedevi nulla, non avevi neppure la patente. Ma come smantellare l’intero tuo mondo, il tuo ritiro monastico, costruito anno dopo anno, pietra dopo pietra, proprio mentre eri preso dai preparativi per l’antologica a Palazzo Te, a Mantova? Troppe emozioni per il tuo animo sensibile. Ci fu la fitta al cuore, il ricovero al Centro Cardiologico Monzino, le ore d’attesa su un lettino. E poi, quando tutto sembrava passato, proprio mentre ti allacciavi le scarpe per tornartene a casa, l’infarto. Mancavano poche settimane all’inaugurazione della retrospettiva mantovana. Che non avevi mai cercato ma che era arrivata colpevolmente troppo tardi in un paese così ingrato. Tu non c’eri. Crudele e coerente, l’artista non c’era, parlavano le sue opere per lui. Con la tua voce.

 

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