C’è sempre stato un prima e un dopo per te, Mario. Niente terre di mezzo, niente compromessi, zone ambigue. Un taglio netto: prima, dopo.
C’è la tua vita di ragazzo, di studente del liceo Manzoni, che al ginnasio modellava la creta di nascosto, come gioco, come inconsapevole tirocinio, come anelito. E c’è la morte di tuo padre e di tua madre, nel volgere di neppure due anni, nel mezzo dell’adolescenza. Ultimo di quattro figli hai seguito il consiglio di tuo fratello Bruno. Niente creta. Ti sei iscritto alla facoltà d’architettura. “Bisognava che io dessi l’assicurazione di una scelta a mio fratello, che fosse garanzia di un avvenire e di un mestiere” raccontasti. Concreto, pronto al sacrificio. Eri un valligiano, nato ai confini con la Svizzera, intransigente, etico, non moralista. Ci sono i tre anni al Politecnico e la frequentazione di «Corrente di vita giovanile» e di Giacomo Manzù. Poi c’è la guerra. L’8 settembre 1943 non hai avuto dubbi, non hai cercato compromessi. Avevi giurato come tutti per il Re, per la Patria, non per Mussolini, non per Hitler. Chiuso in un carro bestiame ti hanno portato in un campo di deportazione. Due anni di stenti e di fame. Luigi Carluccio era con te, ti ritrasse in un disegno. Il volto smagrito, lo sguardo spento. Tornasti a casa, a cinque anni dalla partenza, che pesavi neppure 44 chili. Per tutta la vita hai avuto problemi col cibo, mangiavi poco, sciapo, l’odore delle rape ti ricordava la prigionia. Ciò che ti tenne in vita, in quei giorni disperati – nei campi tedeschi o polacchi -, fu la volontà. Di diventare quello che dovevi diventare, senza compromessi. Uno scultore.
Eri di Tirano, Mario, eri un montanaro. “Non rinnego la mia origine di valligiano” dicevi. “Non si può prendere un abete e portarlo nel deserto. Le radici te le porti dentro fino alla fine.” L’arte si imparava dagli artigiani, pensavi. Il mestiere, prima di tutto. Imparavi a usare le mani, a capire la materia, la creta, il bronzo, nelle botteghe. Conoscesti Giuseppe “Pinella” De Andreis, fonditore alla MAF, in via Soperga, diventaste amici al punto che lo seguisti quando anni dopo aprì con i figli la sua fonderia d’arte. Avevi una parola, la rispettavi.
Lavoravi su commissione, scolpivi come un artigiano, non come un artista, perché ancora non ti sentivi degno di questo appellativo. A Lambrugo avevi fatto la tomba di Giancarlo Puecher, partigiano vigliaccamente ucciso appena ventenne negli anni della tua prigionia. E ci sei già, tutto. Ancora non lo sai, ancora non t’è chiaro, ancora ti porti dentro la storia dell’arte, la scultura rinascimentale, l’architettura classica. Ma ci sei. Devi solo trovare la tua voce, farla risuonare nelle tue opere. Anni dopo dirai, sorpreso, di aver cercato per tutta la vita la semplicità. “Ma non credevo che la semplicità fosse così complicata.”