Nel 1965 affittasti una nuova casa e adattasti il seminterrato a studio. Casa e bottega, come sempre. Quattro persone al seguito, non hai mai voluto perdere la dimensione artigianale del tuo lavoro. Via dell’Annunciata 7 divenne un nuovo crocevia di incontri, relazioni, amicizie. Era nella tua natura fare salotto, discutere d’arte, architettura, cinema, politica. Assieme a Carlo Ripa di Meana eravate forse la coppia più bella della città. Gianni Agnelli ti chiamò per ristrutturare il suo appartamento milanese. Era una borghesia aggiornata, colta, quella che ti cercava perché tu eri l’architetto capace di scrollare di dosso tutta quella serietà monastica ereditata dai padri del razionalismo per immaginare case festose, pop, degne di una swinging Milan. Cosicché anche gli showroom per la Fiat – a Torino, Roma, Zurigo, Vienna, Bruxelles – furono occasione di sperimentazioni plastiche, di allestimenti futuristici.
Nel 1974 il tuo ultimo trasloco, Gae. In via Fiori Oscuri resisteva un palazzo con ancora addosso i segni dei bombardamenti. Ristrutturarlo divenne per te un’occasione per progettare una casa su più livelli, scavalcati da passerelle metalliche interne, piccoli anditi, open space, terrazze e finestre che s’affacciavano su Piazza San Marco. Adiacente all’edificio c’era una palazzina di due piani dove si racconta che Giuseppe Verdi compose la messa da requiem per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, poi diretta dentro le navate della chiesa il 22 maggio 1874 proprio dal vecchio maestro. Ristrutturasti la palazzina creando uno spazio degno di Escher, dove fra rampe metalliche dalla pendenza vertiginosa, piani sfalsati, abbassamenti e scavi creasti il tuo nuovo studio. Infine apristi una porta. Discreta, a scomparsa, quasi invisibile. Una breccia fra la casa di via Fiori Oscuri e la palazzina di Piazza San Marco. Casa e bottega. Da una parte eri la Gae, dall’altra l’architetto Aulenti. Rimase casa tua per sempre.
Avevi in quel tempo accorciato i capelli, fino a lasciar incanutire la capigliatura che sembrava armonizzare con le tue giacche da uomo fatte su misura e i tuoi pantaloni impeccabili. In Fiori Oscuri da lì a poco vennero a vivere altri amici e conoscenti, come Ennio Brion, e tu stessa consigliasti Lina Sotis di acquistare l’appartamento sopra il tuo. Era la tua naturale attitudine alla socialità. Avevi preso l’abitudine, il 25 dicembre, di organizzare una festa per chi – separati, stakanovisti, senza famiglia – avrebbe trascorso il Natale da solo. Nel tempo divenne un appuntamento inderogabile, il più mondano degli appuntamenti milanesi. Si allestivano tavoli attorno ai quali si sedevano nonni e nipoti, amici e conoscenti, intellettuali e imprenditori, artisti e filosofi, studenti e professori. Umberto Eco ed Ettore Sottsass, Vittorio Gregotti e Maurizio Pollini, Andrea De Carlo e Ludovico Einaudi, Emilio Tadini e Stefano Boeri. Non mancava nessuno, casa tua era diventata “the place to be”.
Conviviale ma integerrima nei rapporti eri altrettanto pignola ed esigente nel lavoro, capace di sfuriate leggendarie. Pretendevi tantissimo da tutti, non solo con l’ultimo dei collaboratori ma anche col primo dei clienti ai quali non davi possibilità di scelta. Incontrarti era temerti. Solo con Luca Ronconi sembravi addolcirti. Amavi il teatro, ti affascinava questo luogo estetico dove spazio e tempo si fondevano assieme. Hai progettato per lui le scenografie di spettacoli memorabili per il Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato. La passione per il teatro l’hai coltivata anche negli anni a venire fino a cimentarti alla regia nel 1981 con La donna del lago di Rossini (e Maurizio Pollini alla direzione d’orchestra).
Allestimento, grafica, edilizia, design, teatro. Ti sei occupata di tutto, “dal cucchiaio alla città”, avrebbe detto il tuo maestro Ernesto Nathan Rogers. Tullio De Mauro scrisse che Pasolini fu il primo intellettuale senza dialetto in Italia. Tu sei stata sicuramente il primo architetto non regionalista in Italia. Ché se Michelucci era, in qualche modo, la Toscana, o Scarpa il Veneto, tu eri, per storia personale, origini familiari, attitudine generazionale, naturalmente internazionale. Per questo vivevi bene a Milano. “Ciò che rende Milano bella” hai detto una volta al Corriere della Sera “è che ci sono pochi milanesi. La multiculturalità è un pregio, altrimenti si diventa subito provinciali”.