Non si nasce milanesi, si decide di diventarlo. Voi l’avevate capito, definitivamente, quella sera d’inverno, immersi nella nebbia cittadina, quando ancora la caligine era parte facente, irrinunciabile, del paesaggio urbano. Superati i Bastioni Milano era una selva continua, un tappeto di orti. Un vivaio, come suggeriva il nome della via – Strada del Vivaio – dove si coltivavano e vendevano le piante dei milanesi. La cinta dei Bastioni ormai s’era fatta stretta per i sestieri della città storica. La modernità premeva, cercava spazio. Gli assi di corso Venezia e corso Monforte, un secolo prima, avevano iniziato ad arricchirsi di palazzi nobiliari: Serbelloni, Cicogna, Diotti, Isimbardi. Sui corsi la cortina edilizia si mostrava urbana, alle spalle invece bucolica, persino agreste. Era la Milano “plongé dans le vert” come ebbe a scrivere Stendhal, francese per caso, milanese per scelta, fino a dichiararlo nell’epitaffio – in italiano – inciso sulla sua tomba a Montmartre: “Arrigo Beyle / Milanese / Scrisse / Amò / Visse”.
Ma Milano aveva fretta, voglia di fare. Il Piano Regolatore Beruto, di fine Ottocento, stava ridisegnando la viabilità e il volto cittadino. La città voleva entrare nel nuovo secolo adeguando il suo fasto: nuove strade, per la residenza della nuova ricca borghesia imprenditoriale, a un passo dal centro aristocratico; nuovi edifici, parlanti la lingua del nuovo secolo. Elegante, moderna, decò.
Voi quella sera eravate lì, nella vostra Isotta Martini, perduti nella nebbia. Usciti dalla Scala, pronti a tornare a casa. Fu in quel momento che decideste di diventare milanesi.
Perché tu, Angelo, eri di tutt’altra parte. Tuo padre era del lago di Monate. Avevi appena due anni quando con la famiglia vi trasferiste a Rosario, in Argentina, dove tua madre aveva una gioielleria. Forse è per questo che molti anni appresso Lucio Fontana veniva spesso a trovarvi a casa. Non tanto per la sua arte, così lontana dal tuo gusto, ma per rimembrare assieme gli stessi paesaggi infantili.
E tu Gigina eri di Pavia. Tuo nonno lavorava metalli e minuteria. Attività redditizia a fine secolo. Tale da permettere a tuo padre Ambrogio di aprire una fonderia di ghisa nel nuovo secolo. Gli affari di famiglia, insomma, andavano bene. E pure tuo fratello Vittorio, figlio di cotanto padre, non aveva perso tempo: fu lui a fondare la Necchi, fabbrica di macchine da cucire; innovativa e alla portata di tutti, al punto che non c’era famiglia italiana che non ne possedesse una. Vittorio, anzi, con vezzo e orgoglio, amava regalare un esemplare dell’ultimo modello di “Necchi portatile” ad ogni matrimonio cui veniva invitato. Nobili compresi.