Archivio Vincenzo Agnetti

Vincenzo Agnetti

Artista | Sempione | Dagli anni Sessanta verso la fine del millennio

Biografia

Vincenzo Agnetti (1926 -1981): elementi cruciali sono: il liceo artistico di Brera, la scuola del Piccolo Teatro, il lavoro nel campo dell’automazione elettronica, i viaggi e i lunghi periodi all’estero, il pendolarismo Milano New Yorkdegli anni 70.
Negli anni ’50 i primi scritti sull’arte e la frequentazione di pochi amici, tra cui Castellani e Manzoni, con cui ha condiviso aspirazioni e progetti.
Dal 1967 si dedica totalmente all’arte e a rendere visibili le sue ricerche teoriche e critiche con scritti e opere che delineano un percorso iconico e sorprendentemente contemporaneo.

I cinque anni argentini, Vincenzo, ti permisero di azzerare, dimenticare a memoria. Cominciare dalla fine. Ma anche, da buon meneghino pratico e risoluto, guadagnare abbastanza col tuo lavoro di tecnico da permetterti di tornare a Milano con sufficiente denaro per mantenere la famiglia e per acquistare un capannone incastrato fra una caserma dove intere generazioni di milanesi avevano fatto i tre giorni della leva e un terrapieno che digradava verso i binari delle Ferrovie Nord, dove scorazzavano indisturbati gruppi di gatti randagi ai quali, non di rado davi da mangiare. Era, ed è tuttora, in via Machiavelli 30. Una grande sala a doppia altezza, dove ti capitava di giocare a ping pong con gli amici che venivano a trovarti, con due soppalchi collegati da un ponte aereo dove spesso ti piaceva correre e urlare: “Essere o essere?”

Perché, bisogna dirlo Vincenzo, tanto quanto la tua arte si presentava rigorosa e perturbante, altrettanto nella vita eri giocoso, ironico, di compagnia. Lo sapeva, prima dell’Argentina, Manzoni, che spesso appendeva il suo montgomery all’ingresso della casa in via Mac Mahon per fare serata da te, magari per un risottino. Cucinare era una tua passione. Cucina popolare, lombarda: risotti, cannelloni, casseoula, nervetti. E lo sapevano, tornato dal tuo eremitaggio andino, Lisa Ponti, Luciano Fabro, Mario Merz, Salvatore Licitra, Alighiero Boetti. Si divertivano con le tue battute, i tuoi neologismi, le tue lingue inventate. Tu, fine dicitore, sapevi che in fondo era l’espressione, l’intonazione che sapeva dare senso ad un discorso. Non hai mai avuto problemi a farti capire, in Germania o negli Stati Uniti, quando ormai eri diventato un artista internazionale, anche se non parlavi correntemente le lingue. Che tu, oltre al tuo italiano impeccabile, l’altra lingua che conoscevi era il milanese, che usavi con gli operai, i muratori, gli artigiani che frequentavi per il tuo lavoro.

La tensione all’impossibile superamento delle contraddizioni (esiste un artista più interessato di te alle aporie, agli ossimori?), al desiderio di fare dell’arte un puro concetto eppure sapere che non può sussistere senza un supporto fisico faceva del tuo lavoro una anomalia in quella corrente artistica che veniva chiamata in quegli anni “concettuale” (ma Fabro ricorda anche “mentale”). Il tuo è stato sempre un approccio filosofico, pensante all’arte. I pensieri espressi erano tuoi, decantati da pagine e pagine d’appunti, non rubati ad altri e semplicemente messi in mostra.

Tu, fabbricante del tuo pensiero e dei supporti che lo esponevano come icone laiche. Non ti mancava la manualità: quella dello studente d’arte, del pittore, quella del cuoco, quella dell’elettricista che aggiusta l’impianto elettrico del capannone dove lavorava, con un bancone pieno d’attrezzi, spesso sdraiato a terra. In via Machiavelli 30 passavi buona parte della tua giornata, e non di rado anche la notte, buttato su una branda a riposare in una stanza attigua. Con gli anni pure Germana, nel frattempo diventata medico, era venuta a vivere nello stesso cortile. I vostri erano incontri quotidiani, dove le raccontavi i tuoi progressi, i tuoi progetti, fra un risotto e una risata.

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