Archivio Vincenzo Agnetti

Vincenzo Agnetti

Artista | Sempione | Dagli anni Sessanta verso la fine del millennio

Biografia

Vincenzo Agnetti (1926 -1981): elementi cruciali sono: il liceo artistico di Brera, la scuola del Piccolo Teatro, il lavoro nel campo dell’automazione elettronica, i viaggi e i lunghi periodi all’estero, il pendolarismo Milano New Yorkdegli anni 70.
Negli anni ’50 i primi scritti sull’arte e la frequentazione di pochi amici, tra cui Castellani e Manzoni, con cui ha condiviso aspirazioni e progetti.
Dal 1967 si dedica totalmente all’arte e a rendere visibili le sue ricerche teoriche e critiche con scritti e opere che delineano un percorso iconico e sorprendentemente contemporaneo.

Non c’eri. Quando il tuo amico Piero Manzoni moriva appena trentenne, non c’eri, Vincenzo. E neppure quando veniva inaugurata la linea metropolitana rossa, quella di Franco Albini. Quando Milano stava diventando una capitale del design, dell’arte contemporanea, dell’economia, tu eri in Argentina con la tua famiglia. Ci hai vissuto cinque anni, dal ’62 al ’67. Ti occupavi di automazione elettronica per le centrali idroelettriche. Un lavoro da tecnico, impegnativo, razionale, anaffettivo. Fuorono gli anni in cui liquidasti il tuo passato d’artista. Il periodo che poi decidesti di chiamare “Arte no”. Niente arte, del passato, del presente, solo vita, libertà, cavalcate sulla spiaggia oceanica, orizzonti sconfinati. Ti stavi impegnando a dimenticare, scrivendo incessantemente suoi tuoi quaderni, fitti fitti di pensieri, elaborazioni, teorie. Scriverli per non rileggerli mai più. Era già, a modo suo, la prima tua opera artistica dopo quelle che avevi distrutto prima di partire per il nuovo mondo.

Perché, Vincenzo, non nasci artista in Argentina. E neppure hai smesso d’esserlo in quel lustro andino. Che tu lo fossi lo sapevi fin da ragazzo, tu, cresciuto in Porta Romana, diplomato al liceo artistico di Brera, studente alla scuola del Piccolo Teatro, dove hai conosciuto Bruna Soletti, la tua compagna imprescindibile, subito amata, subito sposata, già padre di Germana poco più che ventenne. E se non fosse stato per la fame di vita avresti sicuramente proseguito la tua carriera teatrale. Fosti attor giovane con Strehler al Piccolo, la tua voce calda appassionava chi stava ad ascoltarti. Ma l’arte per te non era fatta a compartimenti stagni: eri pittore, poeta, attore. Eri qualcos’altro che ancora non sapevi.

Inseguivi con i tuoi amici nuovi percorsi espressivi. Si chiamavano Piero Manzoni o Enrico Castellani. Con loro avevi collaborato fin dal primo numero di “Azimuth”. E la sera tornato a casa, leggevi il capolavoro sulla memoria e il tempo di Proust a tua figlia bambina, nella sua cameretta, dove campeggiava un tuo dipinto raffigurante due equilibristi. Di quel dipinto, insieme alle ceramiche e alle altre tue opere sparse per casa, non è rimasto più nulla. Il tuo lavoro di apprendistato artistico lo hai liquidato, distrutto, azzerato. Anzi, come hai saputo esprimere in uno dei tuoi illuminanti enunciati, “dimenticato a memoria”. È un po’ come in quella fiaba del poeta mediorientale che chiede al suo maestro di insegnargli l’arte dei versi: “Impara tutti i grandi poemi del passato” gli aveva risposto il maestro. Il discente giudizioso lo aveva fatto ed era tornato un decennio dopo dal mentore, con la testa piena di poesia. “E ora?” aveva chiesto impaziente. “E ora dimenticala” aveva risposto l’altro.

Questo era la vera essenza della cultura, secondo te. Non un infruttuoso citazionismo, non una sterile erudizione. “Cultura è l’apprendimento del dimenticare” scrivevi. Proprio come quando si mangia: trasformare i sapori in energia. Assimilare il passato ma non sentirne l’onere. Siamo figli della nostra storia, immersi in un linguaggio e in un tempo che ci forma, ci influenza. “Il circondario altera il circondato”, scrivevi.

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