Eri tangente al regime, fosti opportunista come molti tuoi colleghi in quegli anni. Ti iscrivesti al partito di fretta e furia, per non perdere la cattedra. Ti bastava avere la tranquillità economica, il prestigio sociale. Del Duce pensavi quello che pensavano tutti e nessuno diceva. Tranne Medardo Rosso, torinese di Milano, milanese di Parigi, che già anziano venne celebrato in una esposizione voluta da Margherita Sarfatti alla galleria “Bottega della poesia”. La mostra fu inaugurata da Mussolini stesso. Ricordi, Francesco, quando Rosso con non curanza mise la mano sulla spalle del Duce? “Dì un pu, Benito” gli chiese lo scultore, svagato, “te sonet semper el viulin? Te fé ben, te fé ben. L’è püssé impurtant de la politica.”
Sono ricordi che hai fissato in un tuo libro di memorie, Francesco. Perché hai sempre amato scrivere, soprattutto poesie, e frequentare scrittori. Poeti, meglio ancora. Salvatore Quasimodo, più di tutti, emigrante come te dalla terra del mito, siciliano ermetico, che viveva lavorando al Genio civile di Sondrio. Quattro ore di treno da Milano ad andare, quattro per tornare, ogni giorno. Tutto tempo dedicato alla letture e alla traduzione dei classici. Per poi, rubando ore al sonno, incontrarvi ai tavoli del Savini, con Sinisgalli, Solmi, Gatto, Marussing, De Grada, Cantatore…
Ti fecero direttore di Brera, eseguisti monumenti alla gloria del regime. La dittatura morente ti nominò accademico d’Italia, infine tutto crollò di schianto. La guerra azzerò di nuovo la tua vita. Fosti epurato, messo all’angolo, disprezzato. Senza più niente se non l’amore di Bianca, sposata durante i bombardamenti. Solo pochi amici ti restarono vicini: Vanni Sheiwiller o Vittorio Barbaroux, antifascisti della prima ora, Lucio Fontana, che generoso ti aiutò facendosi ritrarre da te per la mostra che stavi organizzando a Buenos Aires. Ti prestò pure dei soldi per fondere alcuni tuoi bronzi. Lasciasti l’Italia senza alcun credito, tornasti dal Sudamerica trionfante, come ogni classico romanzo d’appendice prevede.