Nascesti povero, disperatamente povero, Francesco. Tuo padre ti portò via, con tutta la famiglia, da una Sicilia sfregiata dalla fame. Sognava l’America, si fermò a Genova. Cosa ti resta di Linguaglossa, delle pendici dell’Etna, se non il mito di una terra originaria, la nostalgia di ciò che non hai mai conosciuto se non dalle parole dei tuoi genitori? Tutta la tua arte è stata un’arte di nostalgia, un desiderio di ritorno alle forme composte di una classicità ideale. Greca. Ma questo non potevi saperlo ancora quando vivevi a pochi passi dalla casa di Paganini e giravi per i carrugi di Genova, affamato, nel tentativo di sbarcare il lunario. Ché iniziasti fanciullo a lavorare. Lavoro duro, in bottega, fra marmi e manovali ancora più statuari delle pietre stesse. Studiavi di sera, alla Confederazione Operaia, cercavi il modo di imbrigliare il tuo talento tumultuoso. Poco più che bambino, non ancora ragazzo, già scolpivi la pietra per il cimitero di Staglieno, il museo a cielo aperto di Genova, e guardavi a Marinetti e al futurismo con trasporto giovanile. Uno dei pochi della tua vita, in fondo sempre lontana da tendenze o correnti.
Che fossi un artista lo hai sempre saputo. A Genova se ne accorsero che avevi appena sedici anni, in una esposizione di opere – alla Società Promotrice delle Belle Arti – che poi distruggesti perché non ti soddisfacevano più. Hai corso per tutta la vita, Francesco, hai cercato di risalire la china della tua povertà atavica, giungere in cima, verso la bocca del vulcano, guardarci dentro, timoroso di non avere il tempo per farcela, di non averne il talento. Sembra una storia romantica la tua, il racconto di una vita appassionata, ottocentesca. Di giorno il duro lavoro, la sera gli incontri, appena ventenne, con Eugenio Montale o Camillo Sbarbaro, la notte lo studio, quando non litigavi con tuo padre, frustrato da una vita ferita nell’orgoglio. A Genova Montale ti educava alla musica, fu così – degno di un feuilleton – che al Politeama incontrasti Bianca. La donna più bella del mondo, per te. Ancora giovane, ma tu molto più di lei, sposata ad un uomo avanti negli anni, Avevi per lei un culto stilnovista. Fu per tutta la tua vita l’emblema della bellezza, da raggiungere, da conquistare. Il vostro fu un amore fulmineo e paziente. Durò una vita intera.
Incontrasti per la prima volta Milano quando andasti a Venezia, ai tavolini del Florian, in piazza San Marco, dove il gruppo di Novecento faceva capannello durante i giorni della Biennale. Ascoltavi, affamato di vita e taciturno, i loro discorsi. Fu la voce cavernosa di Carrà a chiederti chi fossi, cosa ci facessi lì. Due anni appresso, a ventun’anni, sempre pronto a bruciare le tappe, esponevi pure tu assieme a loro ai giardini delle Biennale. Ricordi quando ti si avvicinò quell’uomo austero che ti chiese di chi fosse il bronzo del Cristo Morto? “E’ mio” fu la tua risposta. Rimase in silenzio. Poi, in un orecchio ti disse solo: “Ci siamo”, e scomparve. Era Adolfo Wildt. Era come se la Milano dell’arte ti avesse ufficialmente adottato. Iniziasti a frequentare la città: Brera, le gallerie, le fonderie d’arte. E Arturo Martini, alla Prima Mostra del Novecento Italiano, nel palazzo della Permanente, dove esponevi un autoritratto. Più vecchio di te, per molti della tua età già un maestro. Proprio come in un romanzo d’appendice, Martini fu l’amico delle scorribande, il genio irrefrenabile, pronto a svegliarti di notte per farti vedere un’opera appena terminata, galante con Bianca, affettuoso fino alle lacrime con tua madre. Carrà ti consigliava di studiare la tradizione, Martini, irrequieto, iniziava a perdere fiducia nella statuaria. Tu seguisti i consigli di Carrà e ti ritrovasti pochi anni dopo vincitore della cattedra che fu di Wildt, nel 1932, a Brera. Martini non te lo perdonò mai.