Loecch in milanese significa propriamente intronato, balordo. Deriva forse dallo spagnuolo loco di pari espressione. E locco dicono anche i napoletani. Nei dizionari italiani vale ignorante.
Una volta i locchi si chiamavano barabba e abitavano sul corso di Porta Ticinese, e in borgo di Cittadella. Oggidì sono sparsi un po’ dappertutto nei quartieri democratici, ma specialmente sui corsi di Porta Ticinese di Porta Vittoria e di porta San Celso. Il locco non vuole lavorare. Sua caratteristica è precisamente quella di non avere un mestiere fisso, un’occupazione stabile. Egli vive con certe sue industrie segrete o palesi. Ma pure non lavorando, egli non è precisamente né ladro di mestiere, né miserabile. Si potrebbe dire che è un affarista di infimo rango. Vive alla giornata e adora l’indipendenza. Campa di espedienti e ne ha di ogni risma. Ora Alfonso di qualche vecchia benestante che ha la fregola in corpo, o fratello gaudente di qualche cortigiana in voga, ora lenone, ora accaparratore sui mercati e sui verzieri di frutta ed erbaggi. Talvolta sicario di vendette incruente, qualche volta manutengolo e anche strozzino; gonfiatore per eccellenza, cacciatore e pescatore nelle rogge suburbane, venditore di frutta sulla carretta d’estate. Ladro d’occasione ma alla sfuggita. Spia se capita della questura… e così via.
Milano possiede anche il barabbino che non deve essere confuso col locco, né con l’antico barabba. Esso non è altro che il birichino. Dopo il gamin di Parigi, il più scorbellato, il più vivace, il più irrequieto dei ragazzi del mondo è forse il barabbino milanese. La sua occupazione più gradita è quella di smussare gli spigoli, di imbrattare i muri intonacati di fresco. Il barabbino ha in odio le case bianche e pulite. Egli va sempre munito di un carboncello traditore o di un chiodo, coi quali lascia sugli intonachi freschi delle case la traccia maligna del suo passaggio. Egli ha nel sangue l’istinto di far dispetti alla gente. Quando può riuscire ad accoccarla a qualcuno è felice. Il barabbino è il più rapido colporteur di canzoni, di motivi, di gridi, di detti alla moda, che nascono lì per lì senza causa, senza d’onde escano né chi li abbia inventati, né perché meritino d’essere accolti e ripetuti da una popolazione intera.
Sfilate, sfilate, signorine più o meno belle, passate, presenti e future; gaudio e ornamento della metropoli lombarda e delizia dei padri di famiglia e dei tutori! Anche molte di voi, dopo avere cercato invano di campare onestamente col lavoro delle vostre mani, avete preferito di vivere disonestamente col lavoro… di tutt’altra parte del corpo. Il mondo è ingiusto verso le orizzontali, e la stampa peggio ancora che ingiusta. Perché mostrare tanto disprezzo, tanta animosità, o quanto meno tanta compassione per queste amabili fanciulle, le quali non domandano né stima, né rispetto dagli uomini gravi e pudibondi, che sparlano di loro con tanta acrimonia, dopo essersi rotolati magari ai loro piedi a chiedere pietà e amore? Esse non desiderano altro che infine, che i mezzi di poter restare eleganti e ben pasciute. Se avete dei quattrini dategliene in vostra malora, ma cessate dal fare i moralisti a freddo. Se non avete bezzi, mettete la berta in seno e lasciatele passare senza insulti. Chi d’estate vuol vedere un discreto sfilare di queste signorine galanti vada fra le quattro e le cinque in Galleria, poi verso le sei e più tardi, nei paraggi delle fiaschetterie Franzetti e Savini.