Fondazione Studio Museo Vico Magistretti

Vico Magistretti

Architetto-Designer | Porta Venezia – Loreto | Dagli anni Sessanta verso la fine del millennio

Biografia

Fra le sue opere di architettura a Milano: la chiesa S. Maria Nascente al QT8, la Torre del Parco Sempione, la casa di piazzale Aquileia, la casa in piazza S. Marco, il deposito MM Famagosta. Nel campo dell’industrial design ha collaborato con importanti aziende fra cui: Artemide, Cassina, De Padova, Flou, Oluce, Schiffini, Fritz Hansen, Kartell, Campeggi. Ha vinto numerosi premi tra cui il Compasso d’oro nel ‘67 per la lampada Eclisse, nel ‘79 per la lampada Atollo e il divano Maralunga, nel ‘95 ha ricevuto il Compasso d’oro alla carriera.

Ché la musica è sempre stata una tua passione, tanto quanto la macchina un impiccio. Ti muovevi a piedi, o in metropolitana, quella di Albini, l’unica vera opera moderna di Milano, dicevi. Guidavi poco. E male. Soprattutto perché preso ad ascoltare il tuo Mozart, o il tuo Beethoven, mollavi spesso il volante per dirigere il crescendo dell’orchestra. L’arte più eterea, la musica; allo stesso tempo puro concetto e pura emozione. Quello che cercavi nelle cose che immaginavi. Questo era il tuo modo di progettare. Dapprima avere un’idea, un concetto. Cercare un’emozione. Disegnare era l’ultimo dei tuoi problemi. Ti vantavi di aver progettato direttamente al telefono. Se l’idea era chiara, se era necessaria, non aveva bisogno di fronzoli. Si poteva spiegare a voce, in un certo senso si disegnava da sola. Ti sentivi erede della tradizione razionalista lombarda, quando affermavi queste cose. Fra amici, fra colleghi. Non all’università, perché, con quel tuo umorismo sottile, ti piaceva rimarcare che chi sapeva fare faceva e chi non sapeva fare nulla insegnava. Tu non insegnavi. Facevi.

Nel tuo piccolo studio. Tu e il tuo collaboratore di sempre, il geometra Franco Montella, che col suo bel cognome campano e il suo titolo di studio, vi faceva immediatamente sembrare la coppia perfetta di una commedia all’italiana. Il borghese milanese e il popolano meridionale. Che entrava a studio con l’Unità sottobraccio, si metteva il camice (ingrigito oltre modo negli anni) e dava forma alle tue idee sul tecnigrafo. Fra una MS e un’altra. Fumatore incallito, Montella. Col quale parlavi della tua Inter, magari scroccandogli ogni tanto una sigaretta. Ma sempre dandovi del lei. Quarant’anni di una amicizia professionale e umana, talmente profonda che alla sua scomparsa volevi d’impulso di chiudere baracca e burattini. Ma sempre dandovi del lei. Per rispetto, non per forma.

Del tu lo davi ai tuoi compagni di università, ai tuoi colleghi. A Zanuso, a Gardella, a Castiglioni. Negli anni Cinquanta vi ritrovavate a parlare di tutto, all’Umanitaria. Di progetto, disegno industriale, politica, filosofia. Tutto era nuovo e straordinario. Un viaggio aereo alla volta di New York poteva diventare per Rogers la scusa per tenere una conferenza sulle nuvole viste dall’oblò. Così nacque l’italian design. Un gruppo di amici affamati di novità che incontrarono la realtà artigianale della cintura urbana che si stava trasformando in qualcosa di più. E che chiedeva qualcosa di più dai talenti della città. Voleva essere un’industria, voleva pensare le nuove forme della vita moderna. Erano i Gismondi, i Mazza, i Cassina. Che passavano magari sotto lo studio e senza bisogno di entrare in cortile, trasferivano direttamente i modelli, le dime, dalla finestra del tuo studio. Mentre il tuo cane prendeva il sole, pancia all’aria. Milano era una città che stava perdendo le abitudini di paese e ancora non conosceva quelle della metropoli. Tutto si giocava nel giro di qualche chilometro quadrato. Non era raro che Luigi Caccia Dominioni passando di lì trillasse festoso il campanello della bicicletta per dare un saluto al Montella. Eravate giovani in una Repubblica giovane. Ma giudiziosi, come da uso familiare. Nessun bohemien fra di voi.

I pezzi che progettavi dovevano durare anni, decenni. Non ti interessava la moda. Amavi la sedia Thonet, in produzione da centocinquant’anni. Fotografavi tutto, cercavi oggetti imprescindibili, guardavi le cose comuni con uno sguardo fuori dal comune. Per trovarne l’essenza. Quante copie maldestre esistono, per dire, del tuo letto Nathalie? La cosa ti divertiva, Vico, intrigava anzi. Immaginavi le persone che vedevano i tuoi oggetti nelle vetrine dei negozi dirsi: “l’avrei saputo fare anch’io”. Che era vero, se l’avessero fatto. Ma l’avevi pensato tu, per primo, perché ne avevi chiara l’essenza, la necessità.

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