Fondazione Franco Albini

Franco Albini

Architetto-Designer | Magenta | Il secondo dopoguerra

Biografia

Importante figura del pensiero razionalista in Italia, si dedica inizialmente all’edilizia popolare con R. Camus e G. Palanti e alle sperimentazioni nel campo degli allestimenti in Triennale e Fiera. Nel dopoguerra realizza, tra gli altri, i musei genovesi di Palazzo Bianco (1949-51) e Palazzo Rosso (1952-61) a Genova, La Rinascente a Roma (1957-61) e la Metropolitana Milanese (1962-69). È autore di icone del Design come la libreria Veliero e la poltroncina Luisa (Compasso d’Oro 1955). Dal 1952 ha sempre lavorato in collaborazione con Franca Helg.

Milano cambiava, velocemente, continuamente. Il 4 maggio del 1957 la società Metropolitana Milanese aprì il primo cantiere, in viale Monte Rosa. Fra “picconi risanatori”, piani urbanistici del ventennio, bombardamenti, ricostruzioni postbelliche, nuovi quartieri popolari e linee metropolitane in costruzione, Milano fu, nei tuoi anni, non una città qualsiasi ma un infinito, smisurato cantiere. Fu una prova d’orgoglio, la verifica, il collaudo di un popolo che sembrava riuscisse a muoversi all’unisono. Più che nella staticità del centro storico i milanesi si riconoscevano nella dinamicità della “città che sale”. Volevano vivere in una capitale che guardava il mondo con fierezza. La città operaia e quella borghese si sentivano parti di un unico progetto. Cantieri ovunque, a pochi passi dal Duomo fino ai confini estremi dei Corpi Santi. E ciò che unì tutto questo, come il filo che tiene assieme le perle, fu proprio la realizzazione della linea metropolitana. Che però non aveva ancora un’anima. Ci pensasti tu, insieme a Franca Helg e a Bob Noorda a dargliela. All’inizio doveva essere una semplice consulenza d’immagine, la vostra. A te non bastava. Eri dell’idea che un progetto andava tenuto sulle ginocchia, come un bambino. Bisognava coccolarlo, trovargli il giusto significato. Dovevi inventare un paesaggio ipogeo che non fosse oppressivo, dare la pelle, l’organo di senso più esteso, a un’opera di architettura sociale di dimensioni spaventose.

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Franco Albini, Ignazio Gardella, Marcel Breuer in visita a Murano, 1952

Fu il tuo più esemplare monumento alla democrazia. Antiretorico, antistilistico fatto di materiali innovativi, industriali, replicabili, omogenei, riconoscibili. Niente stazioni tutte differenti come occasione per sfogare le fantasie dell’architetto. Cercavi, come sempre hai fatto, l’eleganza nei dettagli: i pannelli di rivestimento prefabbricati di silipol che formavano l’intercapedine per gli impianti, i pavimenti in quadrotti di gomma nera a bolli, il serizzo ghiandone per le scale, i corrimani in tubolari verniciati. Bob Noorda era un olandese che aveva studiato con Gerrit Rietveld, non avevate problemi ad intendervi quando coordinaste la grafica, l’immagine, i caratteri, i simboli, il colore. Un arancio scuro e squillante. “La rossa”, la chiamarono i milanesi la loro metropolitana. Fu il tuo terzo compasso d’oro. Il primo per Noorda, che dopo “la rossa” verrà poi chiamato a ridisegnare la segnaletica delle metropolitane di New York e San Paolo del Brasile, portando il tuo metodo nel mondo.

Quando inaugurarono la rossa erano già quindici anni che insegnavi a Venezia, chiamato da Giuseppe Samonà. Avevi come colleghi Giancarlo De Carlo, col quale scherzavi a pranzo, o Carlo Scarpa che parlava di continuo tanto quanto tu tacevi. Ma a Milano il ’68 era incominciato cinque anni prima. I ragazzi del Politecnico volevano te, Franco, non potevi non ascoltarli. Negli anni hai sofferto la confusione, “l’inferno” che il Politecnico era diventato, l’immotivata sospensione decretata nel 1971 dal Ministro della Pubblica istruzione (eri comunque in ottima compagnia: Ludovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Guido Canella, Aldo Rossi, Carlo De Carli, Vittoriano Viganò, persino il preside Paolo Portoghesi). Ma nel ‘64 sapevi di dover tornare a Milano. Per insegnare a quei ragazzi la tua meticolosa testardaggine d’artigiano brianzolo. La tua etica progettuale e umana, il tuo metodo. Come stavi facendo con tuo figlio che in quegli anni protestava in facoltà, come facevi con quello studente di Genova che di sera lavorava a studio da te. Ti ha sempre reputato un maestro, l’unico che abbia mai davvero avuto. La tua, per lui, fu “una scuola di pazienza”. Anni dopo vincerà un concorso a Parigi, per un centro culturale al Beaubourg. Si chiamava Renzo Piano.

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