Museo Bagatti Valsecchi

Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi

Collezionisti | Da piazza San Babila a via Manzoni | La seconda metà del XIX secolo

Biografia

Sebbene fossero laureati in giurisprudenza, i baroni Fausto (Milano, 1843 – 1914) e Giuseppe Bagatti Valsecchi (Milano, 1845 – 1934) furono ambedue attivi come architetti, occupandosi in prima persona della ristrutturazione in stile neorinascimentale della dimora di famiglia in via Gesù e lavorando per nobili famiglie lombarde, di cui condividevano ambizioni e stile di vita. Appassionati sportivi, coltivarono in particolare la passione per il velocipede. Mentre Fausto non contrasse mai matrimonio, Giuseppe sposò nel 1882 Carolina Borromeo, dalla quale ebbe cinque figli.

Tanto simili nelle passioni dell’arte, tanto diversi nei comportamenti. Fausto tu eri un estroverso bon vivant, il contrario del più chiuso e pacato Giuseppe. Le malelingue dissero che in origine la giovane Carolina Borromeo d’Adda fosse stata presentata per primo a te, d’altronde eri il più vecchio dei due, il primo che avrebbe dovuto accasarsi. Ma la ragazza non ti piacque e ti premurasti di farla conoscere a tuo fratello per farlo convogliare a giuste nozze. Non eri interessato a proseguire la discendenza, sarebbe bastato tuo fratello per quest’onere.

il vostro, Giuseppe, fu un matrimonio impeccabile, con tanto di partecipazione di nozze e inclusa medaglia commemorativa della fonderia Johnson. Era una Borromeo d’Adda che vi entrava in casa, il risultato di due casati così antichi che si perdevano nel medioevo della nazione. Lei ti volle bene da subito, fu davvero la migliore delle scelte la tua. Seguì con interesse la vostra ricostruzione per analogia del vostro passato, lei che non doveva dimostrare nulla per schiatta, che era cresciuta in un lussuoso palazzo di corso di Porta Nuova, la più lussuosa via dell’Ottocento (oggi la chiamiamo tutti via Manzoni), così bello e ben fatto che fece innamorare di Milano e della sua architettura il giovane Stendhal. Ed era proprio verso quella strada sontuosa che il palazzo ricostruito da voi due sembrava tendesse. Un primo cortile, un secondo cortile e poi, sulla via del Gesù, un’ansa nel palazzo prospiciente, vostro anch’esso, come un terzo cortile aperto ai passanti, su cui si affacciava il vostro ennesimo progetto filologico: un palazzetto del primo rinascimento lombardo, in cotto. Pensato per la prole, per la discendenza della famiglia.

Fu madre prolifica e devota Carolina. E si divertì. Certo che si divertì, perché forse s’era resa conto che l’uomo che aveva sposato, all’apparenza serio e impeccabile, aveva una punta di follia, di ironia giocosa che non poteva nascondere. E che forse aveva trasferito ai figli e ai nipoti. Anni appresso, un secolo dopo, Pasino, ingegnere ormai settuagenario, agli inizi degli anni Settanta del ‘900 si divertiva nella villa di Cardano a travestirsi come un figlio dei fiori, un hippy, con attenzione filologica ai dettagli tipica dei suoi antenati che si dilettavano a creare tableaux vivant, fotomontaggi ispirati alle antiche pale rinascimentali, con componenti di casa Bagatti Valsecchi e casa Greppi in bella posa.

Era un gioco. Serissimo. Anche il tuo sterminato biglietto da visita, Giuseppe, colmo di titoli era serio. Eppure ammiccante. Non che dicesse bugie: eri davvero membro, presidente o delegato di tutte quelle commissioni. Eravate davvero due fratelli dediti al bello e alla filantropia. Avevate davvero ricostruito o restaurato le ville e le dimore di molta della aristocrazia meneghina e tutte quelle onorificenze erano più che meritate. Ma messe così, una di seguito all’altra, sembrava l’ennesima narrazione di un progetto di bagatizzazione del passato. La vostra stessa vita, forse era la vostra vera e propria opera d’arte. Non falsa, non vera. Verosimile. Come quando da bambini vi dicevate: facciamo che io sono un barone e tu uno stalliere. E viceversa.

I soffitti cassettonati, i fregi, persino i piatti del servizio di stoviglie, tutto disegnavate e tutto contrassegnavate con scudi, insegne e ornamenti inventati da voi per il vostro blasone. Un lavoro filologico che richiedeva l’ausilio e il contributo fattivo dei migliori artigiani sulla piazza. Perché le cose, prima ancora di essere antiche, o belle, dovevano essere fatte bene. Con pazienza certosina, con dovizia da miniaturista. Di tutti gli emblemi, persino troppi per la vostra giovane casata, il più autenticamente vostro, il più ironico e commovente, però, è un semplice scudo a banda gialla e rossa su cui campeggia non un leone rampante, un grifo o un’aquila imperiale. No. Un semplice stivale. Una scarpa. Bagatti era il nome di vostro padre, prima d’essere Valsecchi, prima d’essere barone. Come “bagatt”, calzolaio, nel dialetto meneghino. Vanno bene i titoli, vanno bene le onorificenze. Ma voi siete, così sembra volete dirci, innanzitutto ciabattini, figli di artigiani, che hanno nobilitato con la loro arte non solo la loro casa, ma la città intera.

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