Centro Artistico Alik Cavaliere

Alik Cavaliere

Artista | Porta Ticinese | Dagli anni Sessanta verso la fine del millennio

Biografia

(Roma 1926 – Milano 1998) Studia presso l’Accademia di Brera con Manzù, Funi e Marino Marini, a cui succede dal 1970 alla cattedra di scultura. Partecipa più volte alla Biennale di Venezia, nel ’64 e nel ’72 con una sala personale. Tiene esposizioni a Tokio, Los Angeles e San Francisco. Tra le opere principali I processi dalle storie inglesi di W. Shakespeare ’72, i cicli: Giochi proibiti 1958-9, Metamorfosi 1958-9, Avventure di Gustavo B ’61-64, Viva la libertà ‘63-83 e tra gli environments: Apollo e Dafne ’70, I giardini della memoria ’88-90, Il Pigmalione ’86-7, Surroundings ’69.

Ti piaceva lavorare con gli altri, Alik. Costruire grandi messe in scena della vita, dell’arte, come un burattinaio. Hai lavorato con Scanavino, Tadini, Ferrari, Sangregorio. Hai allestito per la Biennale di Venezia, nel 1972, la tua opera più ambiziosa: “I processi: dalle storie inglesi di William Shakespeare”, con le musiche di Bruno Canino e le parole di Roberto Sanesi, poeta e amico, collega d’Accademia.

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Alik al centro

Poi nevicò. E nevicò ancora, per giorni. Era il gennaio del 1985. I milanesi continuarono a lavorare, come nulla fosse, non ostante gli oltre 70 centimetri di neve. Giravano per la città, indefessi, spingendo gli autobus, o muovendosi in slittino, arrivò persino l’esercito per sgomberare le strade. Il tetto della palestra del Parco Trotter schiantò, così come il nuovo palazzetto dello sport, mai più ricostruito. Anche il tetto del tuo atelier crollò di botto, la mattina del 17 gennaio. Sommergendo di neve il labirinto concettuale che avevi realizzato paziente per quasi 23 anni. Il correlativo oggettivo della tua mente, la tua memoria solidificata sommersa da un oblio niveo.

Ricominciasti da capo, in via De Amicis 17, nell’ex-convento di S. Maria della Vittoria. All’inizio ti spaventò uno spazio così definito, pregno di storia. Ti sembrava di lavorare in un museo. Poi fu il glicine sulla balaustra, bello e antico, poi fu il giardino nel cortile a convincerti che avevi trovato il posto giusto. Dove affastellare nuovamente i tuoi pensieri, le tue opere, i tuoi oggetti trovati, dove ricostruire il gomitolo della tua mente, estrofletterlo, dove invasare pomodori e limoni o coltivare erbe amare. Lavorare non ti spaventava, non ti ha mai spaventato. Vivevi della tua ricerca. La mattina andavi da via Foppa, dove abitavi, a piedi fino in via De Amicis. Fermandoti da Cucchi, per un cappuccino. Più d’uno, a dir la verità, sembrava quasi ti nutrissi solo di quello.

Pierino, andato in pensione, ti dava una mano. A portare i tuoi bronzi alle fonderie Battaglia o De Andreis, o a curare il giardino nel cortile, sempre più colmo di meraviglie e ciarpame. Emilio Tadini, amico di sempre, diceva che nella tua opera non era possibile stabilire “l’esatta proporzione in cui si mescolano commedia e tragedia, banalità e invenzione, ironia e abbandono.”

Te ne sei andato all’improvviso. Hai fatto in tempo, nel settembre del 1997, a festeggiare il Nobel del tuo compagno di studi, Dario Fo. E a ottobre scoprire d’avere un tumore al pancreas. Forse non l’hai neppure capito per davvero. Chi t’ha conosciuto ha pianto la tua umanità, chi ti ha amato s’è fatto erede della tua memoria. Il tuo limone fruttifica ancora, in quel cortile. Agrumi profumati e generosi, opere tue, in continuo divenire.

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