Caffè milanesi dal Cova al Bar Jamaica

Una guida alla città di Milano del 1841 recensiva 20 caffè, tra cui il Caffè dell’Accademia in contrada Santa Margherita, il Gandini in piazza della Scala, il Caffè del Commercio e il Caffè Reale in piazza del Duomo, il Caffè Mazza nel coperto dei Figini, il caffè dei Servi nell’omonima corsia, il Caffè Nuovo, il caffè dell’Europa e il Merlo in corso Francesco (corso Vittorio Emanuele), il Caffè della galleria de Cristoforis, il Caffè Gran Brettagna in corsia della Palla, il Caffè delle Colonne in corso di Porta Orientale, il Caffè delle Sirene in corsia Giardino (via Manzoni).

Il più famoso, il più bello, il più aristocratico di tutti, è però il Caffè del Giardino, nato nel 1817 per iniziativa di Antonio Cova, ex ufficiale dell’esercito di Napoleone che, preso congedo dalla vita militare, aveva aperto il suo locale nell’edificio all’angolo tra via del Giardino e via S. Giuseppe (oggi rispettivamente Via Manzoni e via Verdi), proprio accanto al Teatro alla Scala. Elegantissimo, nei suoi locali spiccano il banco e gli scaffali di aramè d’Ungheria e frassino con intarsi di noce d’India e le porte decorate finemente (opere tutte del maestro artigiano Paolo Bossi milanese), la bilancia di bronzo che troneggia sul bancone (fusa e cesellata nell’officina di Bartolomeo Greppi).

Le sale sfolgoranti di specchi e lampadari diventano subito ritrovo di letterati, poeti, giornalisti, attori e musicisti. Nonché di cospiratori: è certo infatti che nel 1848, al Caffè Cova, come ben presto si prende a chiamarlo, si discutesse della cacciata degli Austriaci dalla città, anche se forse in maniera meno scoperta di quanto si faccia altrove, come ad esempio al Caffè della Cecchina, in un ammezzato del Caffè del Teatro (Caffè Martini dal 1832, Caffè delle Cinque Giornate dal 1848, Caffè du Jardin dal 1858) di fronte alla Scala, dove si riuniscono i patrioti moderati di orientamento monarchico costituzionale, o al Caffè della Peppina, in contrada Cappello, accanto al Duomo, dove invece si ritrovano quelli di orientamento democratico; o all’osteria del Cervetto, in contrada Rebecchino, dove si riunivano i mazziniani, mentre all’Osteria del Cadenino, in via della Signora, erano di casa gli operai.

Anche Antonio Cova fa il tifo per i Milanesi: durante la quarta della Cinque Giornate, una palla di fucile gli spezzò una specchiera, ma egli non volle sostituirla e anzi la conservò gelosamente come cimelio, e vi fece aggiungere poco dopo la scritta Marzo 1848.

La clientela del Cova proviene sempre dalle fila delle élite, anche se non necessariamente e non solo dall’aristocrazia del sangue, quanto piuttosto da un ceto composito, dove ai nobili, si mescolano grandi borghesi, intellettuali e imprenditori. La borghesia, del resto, lungo l’Ottocento, entra a pieno titolo a far parte delle classi dirigenti e imprime il segno della sua presenza e del suo stile anche nel tono e nelle forme della sociabilità. Conti, marchesi siedono dunque accanto a letterati, imprenditori e uomini del governo cittadino, tutti ammessi ora negli stessi circoli.

Se il Caffè Cova, che oggi si trova in via Montenapoleone, con la sua storia incarna lo spirito della Milano della prima metà dell’Ottocento, il Bar Jamaica sembra fare lo stesso con un’altra stagione, gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Aperto dal 1921 nel cuore del quartiere di Brera, a due passi dall’Accademia, diventa in quei decenni il caffè degli artisti. Si siedono a quei tavoli giovani più o meno squattrinati che di lì a poco avrebbero fatto la storia del design, dell’arte, della letteratura e del costume non solo milanesi ma italiani, come Piero Manzoni, Lucio Fontana, Salvatore Quasimodo, Ugo Mulas.

Emilio Tadini scrisse che un Olimpo minore vegliava sui sogni e le aspirazioni dei giovani artisti del Jamaica. Ma molto si deve anche a Elio Mainini, il fondatore del locale, e a sua madre, a tutti nota come Mamma Lina. È Elio, infatti, ad ereditare dal padre la Bottiglieria Ponte di Brera, aperta dal 1911, e a trasformarla in un locale alla moda, ed è sempre lui che sa valorizzare i talenti dei suoi clienti-artisti: dapprima organizza delle mostre e poi anche un premio intitolato Post Guernica

A Mamma Lina, invece, molti di quegli artisti, giovani e squattrinati, devono più di un’apertura di credito… in tempi di magra.

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